ALLEVAMENTI INTENSIVI
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Secondo stime attendibili (Compassion in World Farming), sono circa 70 miliardi gli animali terrestri allevati ogni anno per l’alimentazione umana, due terzi dei quali con metodi intensivi: mantenuti in gabbie strettissime, confinati in piccoli recinti dove non possono soddisfare neppure le minime esigenze etologiche, spesso geneticamente modificati, questi animali vivono una vita-non vita.
L’allevamento intensivo è fondato sull’assimilazione della filiera zootecnica a quella industriale, sulla riduzione degli animali al rango di prodotti, di semilavorati o di macchine. Nonostante alcune forme di mitigazione imposte dalle norme nazionali o europee, le condizioni in cui vivono, ma sarebbe meglio dire “sopravvivono”, gli animali rinchiusi in questi stabilimenti sono a dir poco paurose.
Dopo aver vissuto in vere e proprie “fabbriche di carne”, dove si nasce e si cresce per finire al macello, queste povere creature – circa 700 milioni all’anno nel nostro Paese – spesso compiono l’ultimo viaggio in una situazione, se possibile, ancora peggiore, a volte senz’acqua né cibo, per ore ed ore sulle autostrade. Finché non arrivano alla meta, dove vedono, sentono e capiscono di essere condotte a morte. Le norme europee che dovrebbero tutelare gli animali (Direttiva 98/58/CE sugli animali d’allevamento, 1999/74/CE sulle galline ovaiole, 2008/119/Ce sulla protezione dei vitelli, 2008/120/Ce sulla protezione dei suini; 2007/43/CE sulla protezione dei polli) o sono inadeguate o non applicate o sovente disapplicate nella pratica.
Proprio per liberare dalle gabbie gli animali che crescono negli allevamenti europei, la Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente ha aderito a “End the Cage Age”, campagna internazionale avviata nel 2018 a Bruxelles: insieme a oltre cento associazioni di 24 paesi Ue, LEIDAA si è impegnata a raccogliere firme per abolire le gabbie e a far conoscere le terribili condizioni in cui sono costretti gli animali negli allevamenti intensivi.
Non è tutto. L’industria della carne ha un elevatissimo impatto sull’ambiente e non è sostenibile. A livello globale viene impiegato per nutrire gli animali circa un terzo della produzione complessiva di cereali, che da sola basterebbe per sfamare non i circa 800 milioni di persone attualmente sottonutrite (stime Fao), ma ben 3 miliardi. Per produrre un chilo di carne occorrono 20 chili di cibo per i bovini, 7,3 per i suini e 4,5 per il pollame. In media ci vogliono 6 chili di proteine vegetali per produrre 1 chilo di proteine animali di alta qualità. Oltre a 15.500 litri d’acqua, l’equivalente di 80 vasche da bagno piene. Che accadrà quando aumenterà la domanda di carne dei paesi oggi sottosviluppati o ancora in via di sviluppo? Per sostenerla ci voterebbero non uno ma due pianeti. La stessa Fao, inoltre, ci ricorda che dalla filiera zootecnica dipende circa il 14,5 per cento di tutte le emissioni di gas serra derivanti da attività umane: gli allevamenti di animali destinati all’alimentazione inquinano più del traffico. Basterebbe ridurre anche di poco il consumo di carne per dare un significativo contributo alla lotta contro il riscaldamento globale, che minaccia il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Eppure, nel recente vertice di Parigi sul riscaldamento globale (Cop 21), il tema delle emissioni di origine zootecnica non è stato neppure affrontato.
La LEIDAA promuove e sostiene in tutte le sedi l’adozione di uno stile di vita veg (vegetariano o vegano)
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