LORO CACCIANO, NOI PAGHIAMO: L’EX MINISTRO BRAMBILLA RICHIAMA L’ATTENZIONE DEL GOVERNO

Quattro milioni di contributi pubblici all’anno erogati dallo Stato alle associazioni venatorie e ulteriori decine di milioni di euro per le protratte infrazioni da parte dell’Italia al diritto comunitario, commesse dal legislatore nazionale e regionale nell’interesse dei cacciatori e delle lobby che li sostengono. Ecco quanto costa agli italiani il “divertimento” di qualche migliaia di cacciatori: loro sparano e noi paghiamo. E’ questo il tema di una dettagliata interrogazione parlamentare presentata oggi dall’ex ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla – strenua sostenitrice dell’abolizione della caccia – ai ministri dell’Economia, delle Politiche agricole, dell’Ambiente e degli Affari europei in materia di contributi pubblici che affluiscono annualmente nelle casse delle associazioni riconosciute dai cacciatori e sulle infrazioni al diritto europeo in materia venatoria.
“Mentre si carica sugli italiani la soma dell’IMU, mentre si tagliano le pensioni, si mandano a spasso gli esodati, si alza l’IVA, si taglia la pubblica amministrazione, mentre enti locali e sanità soffrono – osserva l’on. Brambilla nel corso di una conferenza stampa alla Camera dei deputati – non si comprende per quale ragione dovremmo continuare a versare una somma spropositata di denaro pubblico a una risicatissima minoranza di cacciatori affinchè si diverta a fare scempio del nostro patrimonio faunistico e, non basatasse, dovremmo anche correre il pericolo di pagare “cash” ingenti somme all’Ue per consentire a costoro di sparare qualche giorno in più a qualche specie in più. Perché non chiediamo ai cittadini se sono d’accordo?” Per quanto riguarda l’erogazione di contributi statali alle associazioni venatorie, l’art.24 della legge 157/1992, infatti, istituisce un fondo alimentato da un’addizionale alla tassa sulla licenza di porto di fucile “anche per uso di caccia”. Il 95 per cento di questo fondo è suddiviso tra le associazioni venatorie riconosciute a livello nazionale – cioè Federcaccia, Arcicaccia, Libera Caccia, Enalcaccia, Italcaccia, Anuu – “in proporzione – dice la legge – alla rispettiva, documentata consistenza associativa”. L’interrogazione chiede a quanto ammontano le risorse affluite nel fondo durante le ultime cinque annualità per cui sono disponibili i dati (secondo sommarie informazioni raccolte, sembra che si tratti di circa 4 milioni l’anno) e a quanto ammontano, nello stesso periodo di tempo, le risorse ripartite tra le associazioni venatorie riconosciute e quante ne abbiano percepite le singole associazioni, se siano stati effettuati periodici controlli sulla “consistenza associativa” delle beneficiarie o se le risorse siano state erogate sulla base di una semplice “autocertificazione” delle associazioni, come siano stati effettuati questi controlli e se siano mai emerse irregolarità o difformità rispetto alle dichiarazioni presentate dalle associazioni. Tutto questo perché i ministeri interessati, nonostante l’esplicita previsione degli arrt.1 e 2 del DpR 118/2000 sui beneficiari di provvidenze di natura economica, non rendono pubblici, in forma facilmente accessibile ai cittadini, i dati sui versamenti alle associazioni venatorie. Inoltre, sottolinea la parlamentare, “ risulta che parte di questi fondi sia utilizzata dalle associazioni per pagare il cospicuo apparato burocratico e i non trascurabili emolumenti dei vertici”.
Non c’è solo un problema di trasparenza, ma anche di opportunità. “Non so – commenta Michela Vittoria Brambilla – se questo tipo di erogazioni abbia avuto un senso in passato, se non come “pegno” del patto tra partiti ed associazioni venatorie. Mi sembrano ingiustificabili oggi, in tempi di profonda crisi, per finanziare indirettamente un’attività che incide pesantemente sul patrimonio faunistico che è di tutti, crea una grave ferita all’ambiente, riempie di piombo le nostre campagne e le svuota di turisti. Ed è certamente inaccettabile anche la sostanziale assenza di controlli sulla fine che fanno questi soldi pubblici”. In aggiunta ai contributi pubblici erogati dallo Stato alle associazioni venatorie, nei costi della caccia per gli italiani vanno considerati anche quelli derivanti dalle procedure di infrazione al diritto europeo, commesse dal legislatore nazionale e, soprattutto regionale nell’interesse dei cacciatori e delle lobby che li sostengono.
“E’ difficile stabilire quanti milioni di euro il nostro Paese dovrà pagare per le infrazioni al diritto dell’Unione commesse dal legislatore nazionale e regionale nell’interesse dei cacciatori e delle lobby che li sostengono – continua l’on. Michela Vittoria Brambilla – Sarà comunque troppo, per la stragrande maggioranza di italiani che non hanno mai imbracciato una doppietta. Dobbiamo quindi garantire che qualsiasi iniziativa riguardante le specie protette sia autorizzata solo in base a decisioni contenenti una motivazione precisa e adeguata, riferentesi ai motivi, alle condizioni e alle prescrizioni di cui all’art. 9, nn. 1 e 2, della “direttiva uccelli”. Solo in questo modo sarà possibile limitare i danni del contenzioso con la Commissione – che ci costerà comunque – ed evitare per il futuro che le istituzioni italiane, e soprattutto le Regioni, possano discostarsi dalla normativa europea”. Per chiudere il contenzioso con l’Ue, afferma l’ex ministro del Turismo, “occorre innanzitutto imporre alle Regioni di adottare deroghe solo con provvedimenti amministrativi, per consentire al governo di agire con tempestività ed efficacia se riscontra difformità rispetto alle norme europee. L’ultima trovata delle lobby dei cacciatori, e delle Regioni che le assecondano, è approvare i calendari venatori con leggi regionali, in modo da sfuggire al controllo diretto del governo. Fortunatamente la Corte costituzionale ha censurato questa pratica. Un secondo punto di essenziale importanza –prosegue Michela Vittoria Brambilla -è il rafforzamento, non l’indebolimento, del ruolo dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Oggi le deroghe possono essere applicate “sentito l’Ispra o gli istituti riconosciuti a livello regionale”. E’ invece pericoloso, a mio avviso, equiparare il parere dell’Ispra a quello di istituti legati al territorio, sia pure Università, che potrebbero essere più facilmente condizionati dalla politica locale. Bisogna inoltre potenziare e specificare i controlli sulle attività dichiarate “in deroga”, per avere certezza del numero effettivo di esemplari abbattuti. Attualmente sono in corso 4 procedure ai sensi dell’art.260 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (applicazione di sanzioni ad uno Stato membro che non si sia conformato ad una sentenza della Corte di Giustizia nella quale viene constatato un inadempimento del predetto Stato), tutte per violazione della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici. Allo Stato cioè viene contestato un inadempimento, ulteriore ed autonomo, consistente nella mancata adozione dei provvedimenti necessari all’esecuzione della sentenza che ha accertato la violazione del diritto dell’Unione. Questa seconda procedura, promossa dalla Commissione con una messa in mora, si conclude, in caso di persistente inadempimento, con un giudizio davanti alla Corte di Giustizia europea e l’irrogazione di una sanzione pecuniaria che può essere pesantissima, in relazione alla gravità e alla durata dell’infrazione, alla capacità finanziaria dello Stato membro, all’efficacia dissuasiva cui il provvedimento mira. Dall’analisi delle 4 infrazioni – la prima sentenza è del 15 maggio 2008, l’ultima del 3 marzo 2011 – risulta che si tratta di violazioni prolungate, ripetute e sistematiche. Ed è opinione comune tra gli esperti che possano comportare “una punizione esemplare” per il nostro Paese, che resta uno dei più scorretti dell’Unione. La commissione ha a disposizione due strumenti sanzionatori che può usare anche cumulativamente. Il primo è la somma forfettaria, una “multa” che punisce la “lesione al principio di legalità”. Per l’Italia il minimo è 8 milioni e 854 mila euro, ma la cifra può salire di molto, fino a decine e decine di milioni, in relazione alla lunghezza e alla gravità dell’infrazione. Ancora più preoccupante è la penalità di mora, che può arrivare ad un massimo di 652.800 euro al giorno, secondo la gravità e la durata dell’infrazione e sarà applicata a decorrere dalla seconda sentenza.

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Milano, 11 Luglio 2012